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Studio Legale Merlini e Associati | Le offese su Facebook sono diffamazione aggravata
Con la sentenza n.50 del 2017 la Corte di Cassazione stabilisce che, vista la portata potenziale di audience, le offese su Facebook sono diffamazione aggravata.
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Corte di Cassazione: le offese su Facebook sono diffamazione aggravata.

La sentenza n. 50 del 02/01/2017 della sez. I Penale sancisce che la diffusione di un messaggio diffamatorio tramite Facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, terzo comma del Codice Penale.

La portata mondiale delle varie piattaforme social ha ormai raggiunto numeri talmente elevati che ci obbligano a porci sempre più domande sulle buone pratiche di utilizzo, nonché a riflettere sulla necessità di norme precise che ne regolamentino nel dettaglio l’utilizzo, divieti ed eventuali sanzioni.

Alcuni numeri
I numeri sono impressionanti.

Ogni 60 secondi nel mondo vengono effettuate oltre 2 milioni di ricerche su Google, vengono inviate più di 150 milioni di mail e oltre 44 milioni di messaggi circolano tramite WhatsApp. Su YouTube, ogni minuto, gli utenti visualizzano quasi 3 milioni di video e su Facebook ci si scambiano più di 6 milioni di like e condivisioni. E l’elenco potrebbe continuare.

 

Facebook in Italia
Nel nostro Paese Facebook è una delle piattaforme social più conosciute e utilizzate: gli iscritti sono circa 30 milioni.

È certamente l’immenso impatto sociale di queste cifre che ha portato la Suprema Corte di Cassazione ha pronunciarsi nella sentenza n. 50 del 02/01/2017 , nella quale si afferma che d ivulgare contenuti diffamatori tramite la bacheca di Facebook prevede il reato di diffamazione aggravata poiché il mezzo permette di raggiungere un numero molto elevato di persone.

Già nel lontano 2009 il Garante della Privacy intervenne con una raccomandazione significativamente titolata “Social network: attenzione agli effetti collaterali” , nella quale divulgò un vademecum pensato tanto per i più inesperti quanto per gli utenti avanzati che risponde alle principali istanze connesse all’utilizzo delle piattaforme digitali.

“Social network: attenzione agli effetti collaterali” spiegava come tutelare la propria privacy , come difendere la propria reputazione , l’ambiente di lavoro, gli amici, la famiglia, da spiacevoli inconvenienti che potrebbero essere causati da un utilizzo incauto o improprio degli strumenti offerti dalle reti sociali.

Gli stessi fornitori di piattaforme di scambio, tra cui Facebook, Google, Youtube, Miscrosoft e Yahoo siglarono poi, nel 2010, in Lussemburgo, in occasione della giornata “SaferInternet” un accordo europeo contenente una serie di regole volte a potenziare la sicurezza dei minorenni che si trovano a utilizzare la rete.

Sempre nel 2010, la prima sentenza in Italia ad affrontare il problema , stabilì che è tenuto al risarcimento del danno colui che lede la reputazione, l’onore e il decoro di una persona mediante l’invio di un messaggio tramite social network. (Trib. di Monza, sez. quarta civile, 2 marzo 2010).

Nel diritto interno la prima regolamentazione dei crimini informatici è stata affidata alla legge 547 del 1993 che è andata a modificare la versione originaria del codice penale.

Molte sono state nel tempo le iniziative legislative succedutesi al fine di rispondere alle pressanti istanze connesse ai mutamenti sociali. Basti pensare alla normativa sulla privacy, alla legge sul diritto d’autore , alla responsabilità dei providers, all’ utilizzo fraudolento di carte di credito , al mobbing e allo stalking, che alla luce della più recente giurisprudenza possono configurarsi anche per via telematica, o anche alla pedopornografia sul web.

Le questioni che destano maggiore confusione sono innegabilmente quelle connesse alla tutela della privacy, ma non soltanto. Sono diversi i reati, per i quali è prevista addirittura la reclusione fino a quattro anni , reati sui quali c’è scarsa conoscenza e consapevolezza. I più comuni sono certamente la diffamazione e la sostituzione di  persona ma, come detto, anche i fenomeni di mobbing e di stalking iniziano ad assumere portata preoccupante.

Dottrina e giurisprudenza sono oramai concordi nel ritenere che l’utilizzo di Internet per la diffusione di messaggi diffamatori integri l’ipotesi aggravata di cui all’art. 595 comma 3 del Codice Penale (offesa recata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità), poiché la particolare portata lesiva del mezzo usato per propagandare il messaggio denigratorio, rende l’agente meritevole di un più severo trattamento penale.

Internet è, infatti, uno dei mezzi di comunicazione più “democratici” e con un potenziale di diffusione non comune a nessun altro strumento in circolazione. Con riferimento alla diffamazione attuata mediante l’utilizzo improprio di foto di terzi, la Cassazione, in un processo che è valso la condanna di due giovani che, usando un falso account di Facebook, avevano diffuso alcune foto senza veli di una loro coetanea, ha evidenziato che il consenso a essere ritratti non comporta l’assenso all’utilizzo delle foto, soprattutto se tale impiego avviene in contesti che espongono il soggetto a lesione della propria reputazione. Considerato che le informazioni e le immagini immesse nel web, relative a qualsiasi persona, sono fruibili, almeno potenzialmente, in qualsiasi parte del mondo, la Corte ha chiarito che il reato deve considerarsi consumato al momento della percezione del messaggio da parte di soggetti che siano “terzi” rispetto all’agente e alla persona offesa (Cass. Pen., sent. del 17 novembre 2000, n. 4741).

Ma altri casi ancora più clamorosi sono noti alle cronache per aver addirittura causato la morte della persona offesa.

È utile sapere che sono considerati reati anche la raccolta e l’utilizzo indebito di dati personali, l’utilizzo dei contatti per trasmettere volutamente virus informatici (art. 615-quinquies c.p.), l’utilizzo dei contatti per acquisire abusivamente codici di accesso per violare sistemi informatici (art. 615-quater c.p.), lo scambio o la cessione di materiale pedopornografico (art. 600-ter c.p.), nonché l’invio di messaggi di propaganda politica, di incitamento all’odio e alla discriminazione razziale.

Altro delitto particolarmente frequente è la sostituzione di persona prevista dall’art. 494 c.p. Il suo elemento distintivo è la lesione della fede pubblica, intendendosi per tale, il compimento di una falsità che ha la capacità di ingannare il pubblico, cioè un numero indeterminato di persone.

L’art. 494 prevede quattro ipotesi attraverso le quali si perfeziona il reato , la sostituzione fisica della propria all’altrui persona, che consiste nell’assunzione di contegni idonei a far apparire la propria persona diversa da quella che è, l’attribuzione a sé o ad altri di un falso nome, laddove per nome si intende uno qualsiasi dei contrassegni di  identità, l’attribuzione di un falso stato, cioè la condizione complessiva della persona nella società, l’attribuzione di una qualità cui la legge collega effetti giuridici, come nel caso di chi dichiari di aver raggiunto la maggiore età, purché la qualità in questione sia essenziale per la realizzazione dell’atto giuridico. Pertanto, il delitto in questione è configurabile solo nelle ipotesi tassativamente previste dalla legge, e si consuma con l’induzione in errore della terza persona. Ovviamente chi commette il reato lo deve fare al fine di procurare a sé od altri un vantaggio, anche se non necessariamente ingiusto, oppure per arrecare ad altri un danno.

Sulla base di questa piattaforma normativa la giurisprudenza ha chiarito che la creazione di un account di posta elettronica con un nominativo diverso dal proprio ove il gestore, o gli utenti, del sito, siano tratti in inganno credendo erroneamente di interloquire con una determinata persona mentre si trovano ad avere a che fare con un  soggetto diverso integra un’ipotesi di sostituzione di persona risultando configurabili tutti gli elementi del reato quali l’inganno, l’induzione in errore e l’insidia alla fede pubblica (Cass. Pen., sentenza del 14 dicembre 2007, n. 46674). Ovviamente come detto si deve anche verificare l’esistenza del danno o del vantaggio perché sussista il reato e, nel caso specifico, consisteva nelle diverse telefonate che gli uomini effettuavano per chiedere alla vittima del reato prestazioni sessuali.

Altre ipotesi di reato che stanno prendendo sempre più piede anche nelle piattaforme virtuali sono il mobbing e lo stalking . In riferimento a quest’ultima ipotesi di reato  recentemente la Corte di cassazione ha ritenuto punibile per stalking la persecuzione attuata con video e messaggi inviati su un social network. La sesta sezione penale della suprema corte ha confermato la custodia cautelare pronunciata dal Tribunale di sorveglianza di Potenza nei confronti di un uomo indagato per aver inviato una serie di filmati a luce rosse e fotografie alla ex e quindi per il reato di “atti persecutori” di cui all’art. 612-bis c.p. (Cass. Pen., sent. del 30 agosto 2010, n. 32404).

Lungi dal creare qualsivoglia forma di allarmismo, l’argomento affrontato vuole essere unicamente un invito a una maggiore consapevolezza soprattutto da parte di tutti,  soprattutto dei più giovani, nell’utilizzo di strumenti che, se correttamente impiegati, possono certamente configurare una grande opportunità di comunicazione.